Come la chiusura forzata ha accelerato l’abbattimento della barriera tra digitale e fisico nei musei: terzo appuntamento per i Mailander Talks con Maria Elena Colombo e Giulia Zonca
La vita dal 21 febbraio, giorno dell’arrivo in Europa del virus del pipistrello di Wuhan, al 18 maggio, giorno 1 della fase II in Italia, ha distrutto l’ultima breccia del muro della realtà dove alcune sacche di resistenza continuavano a separare, come lo yin e lo yang, come la DDR e la Germania Ovest, digitale e fisico. Il digitale è reale. In rete, dico e scrivo solo cose che ho il coraggio di dire di persona, recita il primo articolo del decalogo delle Parole Ostili. Stiamo facendo pace con il “Game”, con la civiltà digitale, scriveva Alessandro Baricco lo scorso 26 marzo su la Repubblica, spronando gli intellettuali all’audacia. Dico, scrivo, conosco e scopro, visito, faccio anche delle passeggiate culturali. Online.
Su questo muro della percezione del reale, Maria Elena Colombo, docente all’Accademia di Brera e all’Università Cattolica di Milano, ha ragionato nel suo libro “Musei e Cultura Digitale”, uscito su Editrice Bibliografica ad aprile e consegnato all’editore pochi giorni prima dell’arrivo del virus a Codogno. Ma la pandemia non ha che accelerato quel processo di percezione del reale, come unico ecosistema digitale e fisico.
Questo è stato l’incipit del dialogo “Digitalizzazione della Cultura: gli strumenti digitali dei musei, tra collezioni online e strategia di audience engagement” tra Maria Elena Colombo e Giulia Zonca, giornalista culturale de La Stampa, esperta di arte e musei del XXI Secolo, a cui hanno partecipato tanti professionisti di istituzioni, fondazioni, organizzazioni pubbliche e private, ospiti di Mailander nel terzo tavolo virtuale dei Mailander //. Talks.
E dunque, attraverso i diversi medium di comunicazione, i musei italiani hanno affrontato la prova del lockdown? E come? Secondo la professoressa Colombo lo hanno fatto quasi tutti. Con un distinguo, tra chi aveva una dimestichezza naturale e già consolidata con i propri pubblici e chi ha dovuto improvvisare, che non è mai facile. Chi era già avanti con il “Game” si è trovato in vantaggio. Maria Elena Colombo cita alcune esperienze, tra le quali il Museo Egizio, che non ha fatto che trasferire le passeggiate del direttore Christian Greco dai visitatori della domenica a quelli online. È stata una trasformazione osmotica, quasi da non sembrare che si sia cambiato dimensione. Con il museo torinese, c’è Palazzo Strozzi, che doveva inaugurare Aria, la mostra di Tomás Saraceno: il direttore Arturo Galansino ha raccontato l’artista, le sue tessiture, la sua poetica sui canali online dell’istituzione, surrogando la visita fisica. Dal primo giugno, quando è fissata la (re)inaugurazione della mostra, il museo dovrà per forza fare a meno di tanti visitatori che non arriveranno a Firenze, ma potranno continuare a scoprire gli universi di Saraceno attraverso i contenuti online dell’istituzione. In Toscana il virus terrà lontano anche il pubblico del profilo di Tik Tok degli Uffizi, sul quale però Maria Elena Colombo ha delle perplessità: “È il social media della generazione Z, ma perché a raccontare il museo non sono i ragazzi?”. Di sicuro il virus ha evidenziato che la comunicazione online è una competenza specifica.
Lo insegnano i super musei come le stanze del Rijksstudio, dove i visitatori online dell’istituzione di Amsterdam si costruiscono la propria wunderkammer attingendo alla digitalizzazione totale della collezione, visualizzabile sul sito. Anche il Metropolitan di New York offre ai suoi visitatori virtuali centinaia di migliaia di opere attraverso il proprio sito; una tale ricchezza che quando l’istituzione si è allargata prendendo il Breur building, lasciato libero dal Withney, che si trasferiva sulla High Line, Sree Sreenivasan - il suo digital chief poi a capo della comunicazione della città di NY - ha preferito optare per non realizzare un sito web ex novo, ma solo ampliare e ottimizzare l’esistente.
E di qui nasce una delle grandi questioni della digitalizzazione dell’arte: da dove possono attingere le risorse i grandi musei, che in Italia, come nel mondo, sono in parte o totalmente pubblici? Quanto è etico mettere online tutta questa conoscenza? Il patrimonio è certo sovrano. Ma digitalizzare un patrimonio è un’impresa costosa, che tante istituzioni non sono in grado di sostenere. L’etica si intreccia, dunque, all’altra grande questione della digitalizzazione del patrimonio artistico: la gratuità.
Maria Elena Colombo cita Aaron Swartz, l’attivista dell’open access, suicida nel 2013, che sosteneva che il digitale deve essere sinonimo di democratico e gratuito accesso alla cultura. Per esempio l’elitarissima fiera di Frieeze NY, che Giulia Zonca bolla come inaccessibile per definizione, ha svolto a inizio maggio la sua edizione online, con i galleristi che raccontavano le opere e i prezzi esplicitati: una dimensione non diretta, che ha creato un contatto più immediato, più semplice verso persone solitamente escluse. Un altro concetto chiave della fruizione digitale è subscriber; i giornali, cioè gli old media, nel loro processo di trasformazione digitale stanno realizzando che il modello di ricavo deve puntare sugli abbonati alle edizioni digitali, non più sulla pubblicità della carta. Mariella Mengozzi, direttore del MAUTO - Museo Nazionale dell’Automobile, sostiene che è il visitatore, il parametro unico di ricavo per il museo. E dunque anche il visitatore digitale deve pagare la sua visita virtuale? Maria Elena Colombo sostiene di no: fare circolare la conoscenza crea stima, potenzia un rapporto di fiducia verso l’istituzione culturale. Lo pensano anche a Londra, dove Kati Price, capo dei digital media al Victoria and Albert Museum, mette in proporzione le visite online e quelle fisiche e lo spiega: mettere in circolo la fiducia genera fiducia e attrazione. Ma i musei oggi non sono più luoghi dove limitarsi a conservare il sapere: “i musei devono trasformarsi in luoghi di creazione per la rete, officine per la traduzione della creatività” come sostiene Fulvio Gianaria, Presidente delle OGR - Officine Grandi Riparazioni di Torino, dove l’arte e la cultura abitano insieme a chi pensa la creazione digitale. E dunque l’Italia della cultura deve investire nel digitale?
“L’Italia è il Paese con il patrimonio culturale più conosciuto, ammirato e sognato al mondo ed è importante che i turisti internazionali possano visitarci anche virtualmente. L’iconografia che oggi vediamo sui social media, un tempo la scoprivamo sui giornali, sulle cartoline. Se fosse vero che chi passeggia sulla rete abbandona l’idea dell’esperienza reale, nessuno avrebbe mai visitato i patrimoni dell’umanità” conclude Monica Mailander Macaluso, presidente di Mailander.
Digitale e fisico abitano lo stesso spazio: la realtà. Anche per effetto della tempesta della pandemia, che l’umanità sta ancora attraversando, è necessario che la cultura, il mondo dei musei e quello del turismo potenzino la propria presenza online. È una nuova visione comunicativa, nella quale fisico e digitale, convivendo, si valorizzano reciprocamente.
Pietro Martinetti
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