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Rivoluzione o mazzata fatale? Si riaccende il dibattito sulla riforma dei Beni Culturali, dopo lo stop deciso dal premier Matteo Renzi che ha deciso di prendere altro tempo per superare le criticità emerse nella riforma del Mibact presentata dal ministro Dario Franceschini
Il ministro aveva presentato il decreto come un'autentica rivoluzione: tagli dirigenziali, nuovi manager, soprintendenze e uffici riordinati in un'ottica di maggiore efficienza della macchina culturale e turistica italiana. Ma ora, il decreto pare rallentare, in particolare per intervento del presidente del Consiglio. Secondo lo storico dell'arte Tomaso Montanari, autore di un intervento sul Fatto Quotidiano, lo stop deciso dal premier è un blocco a una riforma 'non renziana'. "Non lo è sul piano fattuale: perché di fatto Franceschini ha sviluppato e in larghissima parte applicato le proposte formulate dalla Commissione D'Alberti, insediata dall'ex ministro Massimo Bray" scrive Montanari, "e non lo è neanche in senso ideologico: nonostante gli equivoci giornalistici, il testo che circola e le dichiarazioni di Franceschini non parlano affatto della calata dei supermanager sui musei".
"Il punto che mi pare più rivoluzionario è la creazione di una Direzione generale Educazione e ricerca" analizza lo storico dell'arte, che ricorda: "si tratta di una proposta che ho avanzato io stesso quando ero membro della commissione Bray". "Con un ritardo di quarant'anni il Mibact si ricorda di essere nato in seno alla Pubblica Istruzione, comprende di essere un ministero dei diritti della persona e scopre che la sua missione principale è allargare l'accesso al patrimonio attraverso un'alfabetizzazione dei cittadini. E il fatto che la Direzione dovrà predisporre un rapporto annuale sull'attuazione dell'articolo 9 della Costituzione è un segnale politico e culturale di straordinaria importanza" afferma Montanari.
Altro punto positivo della riforma secondo Montanari "è la sostanziale abolizione delle Direzioni regionali, che intralciavano il lavoro delle soprintendenze ed erano divenute centrali di potere permeabili alla politica e agli affari. Il personale tecnico rifluirà nelle soprintendenze, ed esse si trasformeranno in segretariati regionali con funzioni amministrative e di coordinamento". Più controversa appare invece "la fusione delle soprintendenze che si occupano di beni artistici con quelle che si occupano dell'architettura e del paesaggio".
"È ovvio che debba essere lo stesso ufficio ad occuparsi del muro di una chiesa e del quadro che ci è appeso. Il problema è come arrivare a questo risultato. Nella Commissione D'Alberti avevamo proposto di iniziare unificando il sistema all'apice, cioè in un'unica direzione centrale del patrimonio che comprendesse anche l'archeologia (che si occupa del muro romano che sta sotto il muro della chiesa di cui sopra), e che preparasse l'unificazione sul territorio. Franceschini ha preferito – con velocismo, questo sì, renziano – fare tutto e subito: ma il corpo periferico del Mibact è vicino alla morte per inedia, e se lo si obbliga ai salti mortali senza prima fargli trasfusioni di sangue (personale giovane, mezzi e finanziamenti) è fin troppo facile prevederne lo sfascio" è il rischio paventato da Montanari.
Il punto più controverso e più discusso riguarda invece la sorte dei musei. "Venti grandi musei sono stati resi autonomi, e dotati di posizioni dirigenziali di prima e di seconda fascia. La prima obiezione riguarda la scelta, spesso arbitraria o sbagliata perché troppo legata al numero dei visitatori, troppo poco alla storia e al contenuto dei vari musei. Per esempio: bisognava mettere nella lista Palazzo Pitti (unificandolo) e non l'Accademia di Firenze; bisognava riunire Pompei all'archeologico, e lasciare l'archeologia di Roma col Museo Nazionale romano; bisognava fare il distretto dei siti reali borbonici e non isolare Caserta".
"Con questa riforma – per esempio – la pessima esperienza del Polo Museale fiorentino ha termine, e gli Uffizi e il Bargello hanno l'occasione di diventare centri di produzione e redistribuzione della conoscenza paragonabili alla National Gallery o al Victoria and Albert Museum di Londra. Se accadrà o no lo capiremo quando potremo leggere le regole e i nomi delle commissioni con cui i direttori verranno scelti: dalla loro serietà dipenderà se riusciremo a reclutare direttori di musei stranieri e insigni storici dell'arte o archeologi (come avviene in tutto il mondo,) o se ci suicideremo affidando il Colosseo o l'Accademia di Venezia a ex giornalisti, politici trombati, manager dismessi, mogli di potenti vari (come avviene in Italia)" è quindi la fredda analisi.
"Ma il punto vero" secondo Montanari "è che nessuna riforma a costo zero è mai riuscita, come hanno imparato a loro spese la scuola e l'università italiane: e questa riforma dovrebbe addirittura tagliare i costi. Ciò potrebbe condurre al collasso definitivo un sistema il cui finanziamento fu dimezzato d'un colpo da Sandro Bondi nel 2008". "E dunque, o Franceschini riuscirà a riportare la spesa pubblica per il patrimonio almeno al livello della media europea (ora siamo a meno della metà), o tutto questo non solo sarà inutile: sarà la mazzata fatale" è la conclusione di Tomaso Montanari.


Sulla stessa lunghezza d'onda anche Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera, la cui analisi parte dalla parole sferzanti scritte da Renzi nel suo libro Stil Novo, in cui si critica "quella che chiama «casta delle sacerdotesse e dei sacerdoti delle sovrintendenze», visti come «persone in genere molto perbene, molto preparate, molto qualificate» però sorde all'idea che «la cultura dovrebbe essere il baluardo di una sfida identitaria. Ma anche una scommessa economica in grado di creare posti di lavoro, di far crescere la platea di utenti...»".
"Quanto abbia pesato questa sua allergia alla sacralità di tanti lacci e lacciuoli sullo stop alla riforma dei Beni culturali portata in Consiglio dei ministri da Dario Franceschini, riforma che non sarebbe sufficientemente netta nel limitare i «poteri di interdizione» dei funzionari delegati a tutelare il nostro patrimonio, non si sa" scrive Stella. Fatto sta che "il riordino dei Beni culturali imposto dalla spending review rischia ora, con l'accavallarsi di altre urgenze e altre risse e con l'incombere del Generale Agosto, di slittare all'autunno. Dopo di che, chissà...". La "mazzata fatale", in questo caso, sarebbe alla riforma più che al comparto culturale nostrano. Eppure, scrive Stella, "guai, se accadesse (...) dopo rimaneggiamenti che non hanno portato a una maggiore efficienza della macchina ma al contrario ne hanno ulteriormente ingrippato i meccanismi, il ministero dei Beni culturali dev'essere assolutamente sistemato".
"Non si tiene così Pompei, non si spreca così la Reggia di Caserta dai visitatori dimezzati, non si lasciano a terra per mesi le macerie del castello di Frinco" è infatti la critica di Stella. "Essere i primi ci impone di trovare il modo di tenere insieme la bellezza, la piena e premurosa tutela di queste ricchezze e una corretta gestione anche economica di un'eredità che non può essere un peso ma deve essere anche una risorsa. Servono nuove professionalità? Nuove freschezze? Nuove idee? Avanti! Purché siamo d'accordo su una cosa: non siamo i «padroni» dei nostri tesori. Siamo solo i custodi. E l'obiettivo principale non può essere quello di fare cassa. Neppure con questi chiari di luna...".
"La quantità di resistenze che sto incontrando da sola dimostra che questa è una riforma che cambia moltissimo" è la convinzione espressa da Franceschini. Ma prima è necessario attendere l'approvazione definitiva.

 

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Nella foto, Palazzo Pitti. Fonte: museumsinflorence.com

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