Il mondo corre, l’Italia arranca. La Storia è la nostra grande alleata per il retaggio e la memoria che ci ha consegnato ma è anche il maggior ostacolo per far comprendere a 60 milioni di italiani che il Boom degli anni Sessanta e la ricchezza che ne è conseguita vanno difese con un profondo cambiamento della mentalità. Ci vuole Senso Civico, Rigore, Tolleranza Zero. L’alternativa non è un lento declino, ma una brutale emarginazione dai mercati mondiali
Ad Alassio, nell’ex Chiesa Anglicana della città, l’Istituto alberghiero Claudio Ventimiglia a maggio ha organizzato un convegno dedicato ai 50 anni della sua fondazione, avvenuta nel 1963. Il tema era: “C’era una volta il Boom 1963”.
Giorgio Boatti, scrittore e saggista, splendido narratore, si è dilungato sul miracolo economico, sociale, culturale di quegli anni dove l’Italia, uscita in ginocchio dalla guerra, in pochi anni aveva stupito il mondo arrivando addirittura a conquistare l’Oscar per la Lira come la moneta più stabile e affidabile. In quegli anni si calcola che 24 milioni di italiani (eravamo 42 milioni all’entrata in guerra nel 1940) si siano spostati dalle campagne alle città, dall’arco alpino e dal Meridione verso le nascenti metropoli del Centro (Roma) e del Nord (Milano, Torino, Genova, l’intera Pianura Padana).Era l’Italia di Giulio Natta, premio Nobel per la chimica che inventò il moplen, di Enrico Mattei, che creò dal nulla l’industria energetica italiana, di Adriano Olivetti, le cui macchine da scrivere sono rimaste un mito e che iniziò anche l’era del computer, di Enrico Cuccia, il carismatico, misterioso regista della finanza italiana, dei capitani d’industria dell’acciaio, del tondino, della chimica, della meccanica, dell’automobile, del cemento, del bitume, delle granaglie, dei tessili, della ceramica, dei mobili, degli elettrodomestici che trasformarono il volto del Paese, della scolarizzazione di massa sancita con la legge del 1962, che allungava la scuola dell’obbligo fino ai 14 anni di età. Tra il 1956 e il 1964 venne realizzata l’Autostrada del Sole, che collegava Milano con Napoli, 775 chilometri lungo la tormentata dorsale appenninica, un’opera di ingegneria civile che stupì il mondo. L’arco alpino vide spuntare come funghi le centrali idroelettriche grazie alle numerose dighe artificiali che modificarono profondamente il paesaggio. Il 1963, il 3 ottobre, è anche l’anno del disastro del Vajont, dove la follia di un anziano, potente, prestigioso progettista – che aveva sottovalutato la debolezza geologica della montagna di fronte alla quale aveva ideato e fatto realizzare una formidabile diga – e la fretta della SADE, la proprietaria della centrale idroelettrica – che portò al colmo il lago della diga infischiandosene dei segnali che la montagna stava inviando, perché voleva far entrare in funzione la centrale idroelettrica prima della annunciata nazionalizzazione dell’energia elettrica – causarono l’omicidio di 2000 persone e la cancellazione di un paese, Longarone.
La splendida relazione di Boatti (giustamente positiva, anche perché la maggior parte del pubblico aveva meno di 18 anni) è terminata con l’auspicio che l’Italia si scuota dal declino che pare averla colpita per tornare al dinamismo di quell’epoca. Non mancano le eccellenze in Italia: vanno premiate, promosse, messe in rete.
Declino o cambiamento?
È giusto parlare di declino considerando la situazione nella quale ci troviamo? Si parla di declino quando un sistema è arrivato a maturità, l’ha consolidata nel tempo (gli imperi romano, britannico, turco, moghul, cinese per esempio) e poi ha perso l’impeto e la vitalità precedenti.
In realtà, il boom economico dell’immediato dopoguerra aveva basi particolari: basso costo del lavoro, basso costo delle materie prime, elevatissimi costi sociali scaricati interamente sugli immigrati interni e sui lavoratori, un costo umano di morti sul lavoro – nelle fabbriche, nei cantieri, nelle miniere anche all’estero dove i nostri immigrati avevano sostituito i lavoratori locali in cambio di carbone a basso costo per l’Italia e preziose rimesse finanziare inviate in Italia dagli emigrati stessi –, la criminalità organizzata che nel Meridione d’Italia sostituì la legge nel controllo del lavoro e delle rivendicazioni nelle campagne. Quanti morti ammazzati per questioni sociali liquidati con due righe in cronaca nera sui giornali locali, del tutto ignorati dalla grande stampa nazionale. Solo la strage politica di Portella delle Ginestre in Sicilia, a opera del bandito Salvatore Giuliano, è rimasta nella memoria anche se i mandanti sono ancora sconosciuti. Nulla di diverso da quel che era accaduto dopo il 1861 con la proclamazione del Regno d’Italia con l’esercito impiegato per sconfiggere il brigantaggio nel Sud continentale (con più di 100.000 morti tra la popolazione civile negli anni 1861-1865, secondo lo storico Giordano Bruno Guerri), in Sicilia nel 1866 (oltre 1000 i siciliani fucilati dall’esercito, migliaia i deportati) e le rivolte sociali nel Centro Nord.
Diverso era il contesto internazionale nel quale ci siamo mossi negli anni Cinquanta del 1900 con il modello americano imposto sia dal carisma di chi aveva stravinto la seconda guerra mondiale (quello americano è stato l’unico esercito interamente meccanizzato: non disponeva neppure di un solo cavallo o di un solo mulo all’opposto di russi, tedeschi, italiani, giapponesi, francesi, inglesi, in un solo mese produceva ciò che gli altri belligeranti producevano in un anno intero) sia con la sicurezza di chi aveva la forza per rimettere in piedi l’economia mondiale: nel 1945 gli Stati Uniti d’America da soli rappresentavano il 50 per cento del PIL mondiale. Gli americani imposero il dollaro come moneta di riferimento e le regole del commercio e della finanza mondiale attraverso la Banca mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, da loro controllati. Fu il Piano Marshall a evitare che si ripetesse il disastro degli anni Venti e Trenta successivi alla conclusione della prima guerra mondiale. Ne approfittammo, con molta intelligenza e notevole furbizia. La differenza con il passato fu che gli enormi costi umani che ciò comportò furono compensati dalla scuola per i figli, dalla sanità per gli anziani, dal benessere per tutti.
In che cosa è consistita la furbizia degli italiani? Nel non rispettare le regole, nazionali e internazionali, che ci eravamo dati o che ci erano state imposte. La stessa capitale d’Italia, Roma, è stata edificata nel dopoguerra in maniera del tutto abusiva dopo essere stata oggetto di un vero e proprio sacco edilizio all’epoca dell’arrivo dei Savoia, nel 1870. Lo stesso si può dire per il nostro sistema turistico, diventato uno dei più importanti del mondo eppure nato e cresciuto nel caos e nell’anarchia. Enrico Mattei è stato paradigmatico del modo di comportarsi delle nostre classi dirigenti che di fronte a un ordine mondiale anglosassone iperaggressivo nei confronti dei vinti, utilizzarono quella che di recente è stata ribattezzata “una furbizia orientale,tipicadelle origini di chi la esercita”, a dimostrazione che la furbizia è assolutamente universale e dipende dalle condizioni in cui viene esercitata. Mattei nel 1946 doveva liquidare l’unica società energetica che l’Italia possedeva, l’Agip. Era un ordine americano. Mattei disubbidì truccando le carte. Era un funzionario pubblico eppure giunse a fondare un giornale, Il Giorno, e una corrente politica, La Base, in seno al maggior partito italiano, la Democrazia Cristiana. Il tutto con soldi pubblici e senza alcun controllo da parte del Parlamento, suo datore di lavoro. Mattei fece dell’Agip il grimaldello per fornire all’Italia l’energia a basso prezzo che ci occorreva per dar vita al miracolo economico industriale. Giunse a finanziare e a proteggere il terrorismo algerino che voleva cacciare i francesi dall’Algeria. I francesi erano nostri alleati sia nella Nato, l’organizzazione militare che fa capo agli Stati Uniti, che nella Cee, la Comunità economica europea, divenuta in seguito Unione Europea. Volevamo il gas algerino: ci riuscimmo. Riuscimmo ad avere anche il petrolio libico. Nel 1966 il capo della Fiat, Vittorio Valletta, realizzò a Togliattigrad, nell’Unione Sovietica, una grande fabbrica di automobili: rappresentava un pericoloso trasferimento di know how tecnico e tecnologico a un potenziale nemico, l’Unione Sovietica, che ci puntava addosso i missili nucleari. Gli Agnelli, proprietari della Fiat, fin dagli anni Trenta erano soci di J.P. Morgan, la più importante banca americana. Lo furono anche mentre eravamo in guerra con gli Stati Uniti. Durante la seconda guerra mondiale, i bombardamenti a tappeto americani spianarono città e snodi ferroviari dalla Sicilia fino al Trentino ma non toccarono le fabbriche della Fiat, che poterono ripartire a pieno regime subito dopo la fine della guerra. Nel 1966 nessuno a Washington protestò o propose ritorsioni contro il ricco contratto con l’Urss. Non siamo gli unici furbi.
Un intero paese, l’Italia, esercitò il diritto dei poveri di non rispettare le regole dei loro padroni per poter sopravvivere innanzitutto (i due padroni di Arlecchino, la pancia e il datore di lavoro) e addirittura per potersi emancipare, economicamente, socialmente, culturalmente. La classe dirigente della Prima Repubblica rappresentò assai bene questo gioco delle parti, dai democristiani che frequentavano assiduamente la messa (Giulio Andreotti, il più rappresentativo della sua generazione, lo ha fatto fin quasi all’ultimo giorno dei suoi lunghissimi 95 anni) ai comunisti che venivano finanziati sottobanco sia da Mosca (in dollari americani) che dalla stessa industria italiana, quando commerciava con l’Urss oltre che dalle strutture economiche (dalle cooperative rosse alle feste dell’Unità) che dirottavano verso il partito parte delle tasse che eludevano grazie a leggi fatte su misura o che evadevano sfacciatamente (alle feste dell’Unità i registri di cassa non sono mai esistiti: erano di destra...). I partiti di contorno si arrangiavano come potevano.
L’Italia è riuscita in due sole generazioni a colmare un ritardo storico di tre secoli, entrando a pieno regime nel club privilegiato dei 10 Paesi più ricchi e industrializzati del mondo. Eravamo i primi al mondo nel 1400, nel pieno del Rinascimento, fummo relegati tra gli ultimi in Europa a causa delle conquiste militari operate da Spagna, Francia, Austria. Il Meridione d’Italia non ha mai avuto dinastie autoctone, la Sicilia è passata dal dominio degli Arabi, arrivati dal Nord Africa nell’VIII secolo, a quello dei Normanni, arrivati dal Nord della Francia, a quello degli Aragonesi, arrivati dalla Spagna, agli Asburgo che avevano sostituito gli Aragonesi sempre in Spagna, ai Borbone, di origine francese ma arrivati anch’essi dalla Spagna nel 1734. Perfino gli Austriaci misero piede per un breve periodo in Sicilia. I Savoia se la ritrovarono addirittura come bottino di guerra dopo la conclusione della Guerra di Successione spagnola. La Sicilia era troppo lontana, nel 1720 la barattarono con la Sardegna diventando anche re di Sardegna, titolo che sostituirono solo con quello di re d’Italia il 17 marzo del 1861. Il Meridione continentale non è stato dominato dagli Arabi, ma da Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Asburgo, Borbone (e prima da Goti, Bizantini, Longobardi, Franchi). Mai una dinastia locale, anche se i Borbone sono stati coloro che più si sono avvicinati a un’idea di dinastia nazionale. Il Centro Italia ha conosciuto l’esperienza degli Stati della Chiesa, dove i Papi imponevano i loro parenti e i loro protetti ma non potevano creare dinastie ereditarie proprio per il meccanismo legato alla loro successione. L’unico che ci provò fu papa Alessandro VI tramite il figlio Cesare Borgia ma fu l’eccezione che conferma la regola. Eravamo sul finire del XV secolo, nell’Italia descritta magistralmente da Niccolò Machiavelli. Il veleno risolse il problema con il papa, un colpo di lancia quello con il figlio.
L’area che va dalla Toscana e dall’Emilia verso Nord ha conosciuto prima i liberi comuni medievali e poi le dinastie locali che cercarono di rendersi autonome e in alcuni casi aspirare anche a principati in odore di regno, come i Visconti di Milano. Fu Venezia nel Nordest prima, il Papato poi a impedire che ciò accadesse. I Savoia erano una dinastia francese che solo nel 1600 decise di puntare il proprio binocolo verso l’Italia. L’Italia rimase divisa in piccoli Stati, troppo ricchi per potersi sopraffare a vicenda, troppo deboli per poter resistere a eserciti che fossero davvero tali. Fu così che tra il 1494 (prima discesa dei francesi in Italia) e il 1499 (conquista del Ducato di Milano sempre da parte dei francesi) iniziò la spartizione del Paese, con l’emarginazione progressiva anche di Venezia, che relegò l’Italia a muta testimone delle grandi rivoluzioni europee – religiose, culturali, economiche – che in Italia erano germogliate ma che finirono soffocate dall’ortodossia religiosa della Chiesa controriformatrice del 1600, ma soprattutto dal dominio coloniale delle maggiori potenze continentali europee.
Dal Muro di Berlino alla Cina
Il primo passaggio storico problematico è stato la caduta del Muro di Berlino del 1989, con la definitiva sconfitta del modello comunista. Ci si illuse che avrebbe aperto le porte a un futuro radioso dove il capitalismo sociale europeo (francese, tedesco, italiano) avrebbe sostituito quello predatorio di marca anglosassone. Così non è stato. Il Convitato di Pietra si chiama Cina: un gigante di un miliardo e mezzo di esseri umani, affamati assai di più di quanto lo siamo mai stati noi, che ha trovato finalmente la chiave di volta per riscattarsi dalla Grande Rapina operata da Inglesi ed europei prima, dai Giapponesi poi tra il 1843 (prima guerra, persa, con l’impero britannico) e la seconda guerra mondiale. La Cina, all’epoca, era il Paese più ricco del pianeta, quando ritrovò l’indipendenza nel 1949 era tra i più miserabili. Lo stesso era accaduto all’India, curata amorevolmente dai Britannici a partire dalla metà del 1700. Nel 1947, quando ritrovò l’indipendenza, per 500 milioni di indiani non esisteva neppure una università. Ancora nel 1969 ci fu un papa, Paolo VI, che chiese di raccogliere fondi per gli affamati dell’India, che erano un’infinità.
La Russia è ricca di risorse naturali e relativamente povera di risorse umane, in questo senso è assai sinergica con l’Unione Europea, la Cina all’opposto è povera di risorse naturali ma è ricca non solo di risorse umane ma soprattutto di una civiltà tra le più antiche del pianeta, che ha salde radici negli ultimi 2200 anni di storia, da quando il subcontinente cinese fu politicamente unificato per la prima volta. La Cina ha avuto un grande impero, che ancora nel 1400 imponeva la sua volontà all’intero Sudest asiatico e aveva solide relazioni con India e mondo islamico.
A partire dal 2001, quando la Cina ha aderito al WTO (l’organizzazione mondiale del commercio) e ha incominciato a inondare il pianeta di merci di ogni tipo, infischiandosene spesso delle regole del commercio internazionale (la “sindrome di Arlecchino”), Stati Uniti ed Europa hanno dovuto fronteggiare una sfida sempre più difficile da sostenere. La crisi del 2008, iniziata con una bolla finanziaria e poi proseguita con una recessione del mercato mondiale che è soprattutto recessione dell’Occidente industrializzato, ha fatto emergere gli altri Paesi in via di sviluppo, come Brasile e India, che hanno adottato la metodologia cinese su scala planetaria. Si tratta di un mix micidiale di strumenti che abbinano dumping commerciale, bassi costi del lavoro, costi umani e sociali interni spaventosi, ma anche università di punta per conquistare il mercato mondiale sia della produzione low cost che di quella high tech. L’orgoglio per la propria storia, la rivalsa verso il colonialismo ottocentesco e novecentesco dell’Occidente, la capacità di fondere potenza commerciale e potenza militare in crescita esponenziale fanno della Cina il grande eversore del pianeta. La Cina sta applicando all’Occidente i metodi che l’Occidente ha applicato a Cina, India, America Latina nei secoli passati. Mentre l’Unione Europea a 27 continua a essere un gigante economico e un nano politico, Stati Uniti, Russia, Cina hanno intrapreso un complesso gioco geopolitico dove Forza ed Economia sono alleate, come sempre, nel dettare nuove regole del gioco su scala mondiale di cui l’Europa rischia di essere la maggiore vittima.
Se i rischi sono enormi, lo sono anche le opportunità che il commercio mondiale sta conoscendo. In un pianeta in crescita dal punto di vista del commercio mondiale, e del turismo che ne rappresenta il lato più positivo e lungimirante, qual è il ruolo che l’Italia può svolgere per salvaguardare le nostre recenti conquiste sociali ed economiche?
Di che cosa abbiamo bisogno, nel turismo, in Italia?Di regole chiare e condivise, soprattutto di regole che una volta adottate poi vanno applicate con estremo rigore. Vale per il turismo come per l’intero Paese.
La “sindrome di Arlecchino” è diventato il maggior problema dell’Italia che continua a comportarsi come se fosse ancora un Paese povero alla disperata ricerca del suo posto al sole. Un Paese di 60 milioni di persone con 1,8 milioni di studenti, con un PIL di 1600 miliardi di euro (tra i primi 10 del pianeta), inserito in maniera stabile all’interno di un Gigante come l’Unione Europea, con una moneta forte come l’Euro, non può più cercare scorciatoie, di qualsiasi genere, interne e internazionali. Tornare all’Euro per esempio sarebbe un suicidio perché comunque il nostro export non ne trarrebbe alcun beneficio: Cina, India e Brasile continuerebbero a massacrarci con il loro dumping commerciale, mentre i Paesi nei quali esportiamo l’Eccellenza italiana penalizzerebbero le nostre esportazioni imponendo barriere tariffarie oggi inesistenti. L’invidia per la Germania, il Paese meno toccato dalla crisi in Europa, deve diventare emulazione nei confronti di ciò che ha consentito ai tedeschi di attraversare gli ultimi 5 anni di recessione economica diventando ancora più forti. Il segreto? È il rispetto delle regole. Poche ma rispettate e fatte rispettare con il massimo rigore. I poveri hanno il diritto di cercare scorciatoie, i ricchi no. Se non vogliono perdere posizioni. Se non vogliono essere emarginati, come accadde alla Serenissima Repubblica di Venezia tra 1600 e 1700.
Un Paese ricco per restare tale deve saper produrre ricchezza con alto valore aggiunto: per poter sostenere lo Stato sociale, per poter sostenere la scolarizzazione di massa, per poter sostenere la sanità per tutti, per poter sostenere il benessere diffuso. Ciò impone la massima efficienza ed efficacia innanzitutto da parte dell’amministrazione pubblica: Parlamento, Regioni, Comuni, burocrazia più in generale. Non sarà facile passare da una mentalità basta sul clientelismo politico e familiare a una meritocrazia vera e dimostrata. Non sarà facile imporre criteri di valutazione obiettivi basati sulla netta separazione tra controllori e controllati. Non sarà facile passare da un sistema giudiziario basato sull’autoconservazione della casta di giudici e magistrati a un sistema giudiziario basato sulla velocità dei giudizi e sulla netta divisione delle carriere tra chi accusa e chi giudica. Non sarà facile imporre il merito nella scuola italiana legandolo agli sbocchi di mercato dei corsi di studio e a una reale meritocrazia anche nella selezione e nella carriera degli insegnanti. Non sarà facile imporre agli amministratori pubblici un reale spirito di servizio basato sulla sobrietà dei comportamenti e sul controllo minuzioso di tutte le spese sostenute, l’unica forma di finanziamento pubblico ammissibile abbinata alla possibilità di scaricare dalle tasse le somme versate agli schieramenti politici, ovviamente con un tetto di non più di 1000 euro a testa. Non sarà facile imporre la Filiera dell’Eccellenza italiana, a partire dal turismo, come settore strategico per l’intera economia italiana che va sostenuta e promossa ancora più che in passato perché è solo nell’export che l’Italia trova e mantiene la sua ricchezza.
Il Turismo è un settore export oriented: ciò significa che va ridisegnato su misura dell’ospite internazionale, deve essere taylor made sul Cinese, sull’Indiano, sul Brasiliano oltre che sui nostri mercati tradizionali, dalla Germania alla Francia al Benelux alla Gran Bretagna alla Scandinavia, dagli Stati Uniti ai Paesi europei dell’Est.
L’Italia deve diventare il più grande Museo Culturale Tematico Multimediale del pianetama anche il più importante produttore di Merchandising culturale del mondo. Storia, Moda, Cultura, Sport fanno parte del fascino italiano nel mondo. Impariamo dai francesi come si fa. Impariamo dagli americani come si fa. L’umiltà è indice di intelligenza. A volte chi è stato povero e si è arricchito in fretta lo dimentica.
Il turismo è accoglienza e ospitalità. Questi termini vanno declinati con parametri chiari, trasparenti, soprattutto applicati con tolleranza zero. Accogliere e ospitare significa innanzitutto garantire la sicurezza dell’ospite a partire da un controllo feroce dei limiti di velocità su strade e autostrade. Chi corre non va solo sanzionato. Va appiedato. Chi provoca incidenti stradali mortali, va trattato come un omicida. Chi tratta strade e ambiente come una discarica, va trattato come un delinquente. Chi non cura la manutenzione e il decoro dello stabile di cui è proprietario, o lo vende o va espropriato a costo zero per la comunità che già dovrà spendere per rimetterlo in sesto.
La proprietà privata ha il suo limite nell’interesse collettivo. Vanno rivisti i parametri per tutti coloro che producono accoglienza e ospitalità, dai trasporti al commercio, dai ristoranti agli alberghi, dalle guide turistiche alle agenzie di viaggio ai tour operator. Chiarezza, trasparenza, onestà. Va premiata la professionalità su basi chiare e trasparenti, vanno sanzionati tutti i comportamenti che penalizzano l’immagine e la qualità del turismo italiano. Formazione e professionalità vanno incentivate, promosse e premiate sulla base di controlli effettuati da società di certificazione terze.
Va cambiata la mentalità di 60 milioni di italiani rilanciando il Senso Civico come materia di studio scolastico ma anche come parametro di valutazione degli organismi pubblici, dalla burocrazia all’amministrazione pubblica. È impossibile? Forse. Però non abbiamo alternative. L’alternativa sarebbe una progressiva emarginazione dai mercati mondiali con un progressivo imbarbarimento della vita civile e politica nazionale. Cambiare si può, anzi si deve. L’alternativa è drammatica.
Renato Andreoletti – direttore di Tecniche Nuove