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Come ogni anno rimaniamo abbastanza sconcertati nel leggere che nella classifica di The Art Newspaper dei primi cento musei al mondo, ci sono la miseria di cinque italiani:

gli Uffizi, primi, sono alla posizione numero 26, poi Palazzo Ducale al quarantadue, la Galleria dell’Accademia fiorentina al quarantasei, Castel Sant’Angelo al settantuno, Palazzo Pitti all’ottantacinque, Reggia di Venaria al novantaquattro. Rimaniamo basiti e istintivamente, grideremmo vergogna e via con la cantilena del tesoro su cui ci sediamo, il nostro petrolio,  e se Pompei fosse oltre le Alpi, i francesi avrebbero il doppio del PIL.

Il problema però è più complesso. Dieci giorni fa, un’inchiesta di Servizio Pubblico sugli Uffizi ha sviscerato problematiche da gestione dei beni culturali da terzo mondo: bagarinaggio fuori dal museo, sovraffollamento costante che mette in pericolo le icone del Rinascimento.  Chi pensa che dovrebbe essere naturale il passaggio dal milione e ottocento mila turisti che si mettono in code kilometriche per vedere Cimabue e Caravaggio, Leonardo e il Rinascimento alla top ten dei musei parigini, londinesi e new yorkesi, desidera vedere il volto della Venere di Botticelli sciolto dal calore del sovraffollamento umano del museo. Al Salone del Libro di Torino nel corso di un incontro sul futuro dei Beni Culturali,  Dario Franceschini ha difeso la gestione del museo raccontando di avere verificato personalmente il sistema di conteggio delle presenze e che non c’è pericolo per la salute dei Giotto e dei Canaletto. 

Le polemiche non sono inedite nel dibattito sulla salvaguardia del patrimonio in Italia, pensiamo alle grandi navi che rischiano di affondare Venezia e come per il turismo, il problema museale italiano non sta nella quantità, ma nella strategia e nel modello che lo regolamenta.  Quello che conta non sono i numeri degli Uffizi, di Palazzo Ducale e della Venaria, ma la capacità di creare una sinergia tra i territori e le città, tra l’antico e il contemporaneo per vendere i brand museali in un pacchetto Italia.  Un altro grande problema è come professionalizzare la gestione dei musei e la loro promozione, con veri e propri manager della cultura che producano marginalità e quindi rendano appetibili le strutture pe l’intervento dei privati. Inoltre sarebbe in qualche modo imprescindibile azzerare la sciagura tutta italiana della gestione del personale museale: ad iniziare dall’inflessibilità delle mansioni e degli orari  fino alla scelta delle competenze. Insomma prima il dipendente poi il visitatore.

Trasformare i musei da contenitori del passato a luoghi in cui si costruisce il futuro, attraverso le attività didattiche, i centri di ricerca, le attività collaterali, nel creare un rapporto fidelizzato con i propri amici e sostenitori sono principi su cui i professionisti del sistema museale italiano lavorano da anni, ma si trovano sempre a sbattere contro una politica che ha prodotto 7 riforme sulla cultura dal ’98 a oggi.  È tempo di creare un paradigma di mecenatismo italiano, una riforma che infiammi il dibattito pubblico non meno di quella elettorale, che sia con modello francese o con modello americano.  Una classe di professionisti della cultura, curatori e storici delle arti lo attende per costruire una nuova stagione italiana dei beni culturali. 

Pietro Martinetti 2

Pietro Martinetti Marketingdelterritorio.info 

Twitter:@PietroMartinett

 

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