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La competizione tra grandi chef, il posizionamento di un territorio e dei suoi prodotti e anche il modello scandinavo: ecco perché il Bocuse d’Or potrebbe segnare una svolta per tutto il Paese

Torino ha ospitato le finali europee del Bocuse d’Or, la massima competizione mondiali tra cuochi, e della Coupe du Monde de la Pâtisserie, l’equivalente gara tra pasticcieri. E dire che il Bocuse è un evento solo per gli appassionati di alta cucina è come dire che le Olimpiadi invernali sono un evento solo per sciatori e amanti dello slittino. E il paragone è tutt’altro che casuale.

Margo Schachter su “La cucina italiana” ha già spiegato benissimo qual è il vero punto di aver ospitato per la prima volta in Italia le selezioni continentali del Bocuse. Fin dal titolo del suo articolo: “Torino e del come si diventa una meta gastronomica mondiale”. Questione di marketing, sintetizza Schachter, e ha perfettamente ragione anche nel ricordare quel che succede a Milano da Expo 2015.

Dal #BocusedOrEurope, svoltosi nei giorni scorsi all’Oval, sono diverse le lezioni che tutta l’Italia può trarre, a patto di scrollarsi di dosso un po’ di quella presunzione che spesso ci accompagna quando parliamo della nostra cucina al resto del mondo.

Per esempio, guardiamo il podio di questa gara gastronomica europea: al primo posto la Norvegia, al secondo la Svezia, al terzo la Danimarca (e fuori dal podio anche la Finlandia batte la Francia). L’Italia, rappresentata da Martino Ruggieri e dal suo commis Curtis Mulpas, è arrivata dodicesima, “persino” dietro al Regno Unito, un posto in cui gli italiani che vi si trovano per vacanza o lavoro di solito tendono a cercare i ristoranti nostrani, per capirci. Molti potranno dire che ciò dipende dalla filosofia del premio, che a loro detta non riconosce e valorizza la ricerca e la specificità della materia prima, la qualità del prodotto che da noi è molto legata al territorio, per premiare invece la tecnica e l’estetica. In altre parole a vincere non è la storia e la cultura culinaria di un paese ma la capacità di interpretare in modo eccezionale i piatti di una cucina sempre più dal gusto internazionale.

Tuttavia una lezione è emersa. In Scandinavia hanno investito molto nella “nuova cucina”. Hanno sperimentato, hanno innovato, hanno fatto marketing e continuano a lavorare per imparare e migliorarsi. Che poi è la stessa cosa che ha spiegato chef Carlo Cracco a Torino, quando dice che “noi italiani dobbiamo stare con i migliori, che significa imparare, stare insieme”. E i migliori, checché ne dica il nostro orgoglio, non siamo per forza noi.

Un concetto che su queste pagine avevamo già espresso quattro anni e mezzo fa, quando la notizia “L’Olanda è il posto in cui si mangia meglio al mondo” aveva fatto scandalizzare molti, ma non chi studia da vicino questi fenomeni. A proposito, al Bocuse l’Olanda si è piazzata subito dopo l’Italia…

E allora non vogliamo ripetere quanto espresso benissimo dalla già citata Schachter (ma vi invitiamo a leggere il suo articolo) su investimenti, eventi, relazioni internazionali e marketing. Piuttosto vogliamo sottolineare come Torino e tutto il Piemonte abbiano capito il potenziale straordinario che eventi come il Bocuse possono avere per valorizzare i prodotti, le ricette, la cultura enogastronomica di un territorio. Come hanno imparato bene gli chef impegnati al Bocuse, che si sono destreggiati tra riso vercellese, carne di Fassone, formaggio Castelmagno, animelle di vitello…

Grazie al Bocuse d’Or, quindi, l’Italia può imparare moltissimo da quei Paesi che, senza una vera tradizione paragonabile alla nostra, ci hanno raggiunti nello scenario gastronomico globale. Se vogliamo riaffermare il nostro primato l’Italia dovrà avere quella stessa determinazione e quella voglia di migliorarsi che hanno dimostrato Comune di Torino, Regione Piemonte, la città di Alba e la Camera di Commercio di Torino nel volere e nell’ospitare il Bocuse d’Or. Tra qualche tempo, capiremo davvero quanto sia stato importante un simile evento per il turismo enogastronomico piemontese.

Il Bocuse d’Or ci ha fatto riflettere anche su un altro tema. La valorizzazione del vantaggio competitivo che l’Italia per ora ha nel turismo e che non va eroso, visto che molti Paesi si stanno attrezzando proprio sull’offerta enogastronomica. Rispetto a loro noi abbiamo un asset strategico: la capacità di innovare partendo dallo sterminato patrimonio legato alle materie prime che ogni territorio esprime e che ogni chef usa e interpreta. Questo vuol dire la possibilità di creare un racconto intorno alle persone, ai prodotti e all’enogastronomia di ciascun territorio. Il che significa specificità, cultura, esperienze uniche. In altre parole il turismo. Un turismo che solo l’Italia può proporre e che gli altri non sono in grado di esprimere. Almeno su questo non facciamoci raggiungere.

 

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