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Tra frammentazione delle imprese e mancanza di coordinamento nazionale, il turismo italiano fatica ad avanzare nella digitalizzazione. Qualche luce inizia ad accendersi

In Europa, la percentuale di turismo in ingresso derivante dai canali Internet è del 49%, in Italia la quota è del 26%: basterebbe questo dato per far capire il ritardo del sistema turistico nostrano nell'inevitabile passaggio al digitale.
Come riporta la testata Agenda Digitale, una recente ricerca commissionata da Google a Oxford Economics ha rivelato che, con un ampliamento e un miglioramento dell'accesso ai contenuti turistici sul web, l'economia italiana potrebbe guadagnare 250.000 posti di lavoro e un aumento del Pil dell'1%. E il ritardo nel mercato dei viaggi online il nostro Paese diventa ancora più grave dal punto di vista economico, se si considera che i giganti del settore, ovvero Ota come Expedia o Booking.com, sono realtà straniere (tra le prime 30 non ve n'è una italiana) che non generano ricchezza sul nostro territorio.
Ma qual è il problema di fondo che frena la digitalizzazione del turismo italiano? La risposta, per gli addetti ai lavori, è talmente scontata da sembrare quasi banale: la mancanza di rete, intesa non solo come world wide web ma soprattutto come capacità di fare sistema. "Il problema è che la maggior parte delle aziende turistiche italiane sono micro imprese, e questo complica la digitalizzazione del settore" spiega Stefano Ceci, presidente dell'associazione Startup Turismo, ad Agenda Digitale.
Una frammentazione su cui, per di più, pesa la famosa Riforma del Titolo V della Costituzione, che ha lasciato competenza esclusiva in materia turistica alle Regioni, togliendo autorità allo Stato centrale. Anche su questo, Ceci è netto: "Occorre smettere di dare denaro inutilmente alle Regioni e di favorire una politica in cui ognuno va in ordine sparso, e definire degli standard, in modo da rendere più facile la creazione di applicazioni e servizi".
In attesa della tanto auspicata "controriforma", i modi per superare queste difficoltà non mancano. Ad esempio, per un miglioramento delle performance turistiche si può fare ricorso alla sterminata mole di open data, e in questo senso sono già numerose le esperienze digitali sparse sul territorio italiano, da Torino alla Lombardia, dalla Toscana al Lazio. Un percorso obbligato, quello degli open data, che tuttavia non è sufficiente senza un adeguato coordinamento nazionale che organizzi e renda accessibile il flusso di informazioni ad utenti privati e amministrazioni locali. La vera svolta potrebbe invece arrivare con il Registro digitale del Turismo promesso negli scorsi mesi dal governo. In tal senso, il commissario del governo Francesco Caio aveva spiegato: "Definito lo standard, sono poi privati e istituzioni a sviluppare applicazioni e servizi, sapendo però che l'interoperabilità è garantita. In altre parole, noi assicuriamo agli operatori un campo regolamentare e fissiamo le regole, così che si possa giocare sul web una partita alla pari con gli altri".
I segnali incoraggianti, a farci caso, iniziano quindi a vedersi: la speranza è che le luci digitali che si accendano possano rischiarare il cielo ancora buio del turismo italiano.

 

Incrementando e migliorando l'accesso ai contenuti turistici online si potrebbe dare un impulso all'economia italiana tale da generare 250.000 posti di lavoro, con un aumento del Pil dell'1%. Lo dice una ricerca commissionata da Google a Oxford Economics e messa online ai primi di dicembre. A oggi Internet, come strumento di promozione del territorio, nel nostro Paese è sotto utilizzato: la quota di turismo in ingresso proveniente dai canali Web è solo del 26%, contro una media Ue del 49%. Come se non bastasse il mercato delle prenotazioni e dei viaggi online è in percentuale significativa in mano alle Ota, le Online Travel Agency come Expedia o Booking.com che non generano ricchezza nel nostro Paese.

 

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(fonte foto)

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