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Veti incrociati tra destra e sinistra, rivalse, giochi di potere tra gli schieramenti. Alla fine il Parlamento non trova l’accordo, e salta l’approvazione della legge di finanziamento della macchina statale. Le conseguenze sul territorio sono drammatiche: musei, parchi nazionali e uffici pubblici costretti alla chiusura, centinaia di migliaia di dipendenti pubblici rischiano il posto, mentre tra i mancati introiti e la tensione sui mercati finanziari provocati dalla chiusura il danno economico è altissimo.

mktgSembra la classica storia all’italiana, invece no: è dagli Stati Uniti che arriva la notizia dello “shutdown”, della chiusura di un numero sterminato di uffici pubblici, compresi i luoghi frequentati dai turisti, come i musei e i parchi nazionali. Tutto deriva dal mancato accordo tra democratici e repubblicani al Congresso federale: i democratici (partito anche del presidente Obama) hanno la maggioranza al Senato, i repubblicani alla Camera. In mezzo, un muro contro muro, con la destra che in cambio dell’approvazione della legge di finanziamento chiede il rinvio della riforma sanitaria Obamacare, con la sinistra che non si piega all’aut aut e con il finanziamento che alla fine non ha l’approvazione del Congresso.

 

Non succedeva dal 1996, quando alla Casa Bianca c’era Bill Clinton, e andando a riguardare cosa successe allora ci si può fare un’idea di quanto potrebbe verificarsi oggi. Il Washington Post, per esempio, ha stimato in 200 milioni di dollari al giorno la perdita che registreranno gli uffici federali nella sola regione della capitale statunitense. Inoltre, come riporta anche il Corriere, 800.000 dipendenti pubblici potranno subire le conseguenze dello shutdown, e secondo Stephen Fuller, direttore del Center for Regional Analysis della Mason University, la paralisi federale avrà serie conseguenze anche sul turismo, fonte principale degli introiti della regione capitolina, grazie ai suoi musei, al National Zoo e alle altre attrazioni locali.

 

Cosa ci “insegna” questa storia? Fondamentalmente due cose. La prima, semplice e forse anche semplicistica, è che “tutto il mondo è paese”: siamo così abituati a lamentarci del teatrino della politica nostrana da non renderci conto che anche altrove i parlamenti si bloccano o in qualche modo danneggiano il regolare svolgimento della vita sociale, culturale e turistica.

La seconda riflessione, diretta conseguenza della prima, ha invece a che fare con il ruolo dello Stato come garante del sostegno alla cultura, patrimonio pubblico per eccellenza. Gli Stati Uniti, l’America, nell’immaginario collettivo rappresentano il modello di una società in cui il privato “vince” sul pubblico, in cui ogni iniziativa o progetto che ha a che fare con l’arte desta l’immediata attenzione di privati cittadini e di imprenditori miliardari disposti a mettere mano al portafogli per amore della cultura. Ed è vero, perché i mecenati come Warren Buffet sono un esempio che tutto il mondo dovrebbe imitare per sostenere casse pubbliche sempre più vuote. Ma i governi, gli Stati, non possono essere accantonati, perché è alle istituzioni che spetta e deve spettare il compito di amministrare, di finanziare, di vigilare sul patrimonio artistico e culturale delle comunità. Anche la cultura a stelle e strisce, simbolo per molti aspetti della privatizzazione, ha bisogno del pubblico: non solo di quello che paga il biglietto d’ingresso al museo, ma anche di quello che paga lo stipendio di chi ci lavora.

 

Il Direttore

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